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La belva

2018-12-29, Verona, via Roma, Ricoh GR2, © Giorgio Montolli

«Ti ucciderò bestia maledetta!».
Pancia a terra tra i pungitopo, fradicio per l’erba bagnata dalla caligine che saliva la montagna in quei giorni d’autunno, Giacomino aspettava pazientemente davanti alla tana con l’indice curvo sul grilletto senza sapere se l’animale l’avrebbe visto uscire o entrare.
Fosse apparso all’improvviso da quel buco nascosto dalle spine sarebbe stato facile: una schioppettata, la palla gli sarebbe entrata in fronte e sarebbe stramazzato al suolo. Ma se invece fosse stato a caccia o a marcare il territorio? Non era detto che gli si parasse davanti: poteva venire da dietro o di lato e occorreva aguzzare la vista e tenere tese le orecchie per cogliere ogni scalpiccio, ogni fruscio. «Fatti vedere canaglia che t’ammazzo!» sussurrava mordendosi le labbra, pensando che se l’avesse ucciso per almeno cento anni si sarebbe parlato di Giacomino come dell’eroe che aveva accoppato la bestia.
Alzò lo sguardo a cercare il cielo tra le cime degli abeti scomposte dal vento e si accorse che imbruniva: con il buio la mira sarebbe stata meno precisa, avrebbe potuto mancarlo dando del vantaggio all’animale che l’avrebbe rincorso fino a sbranarlo, mentre lui eroe lo voleva diventare da vivo e non da morto.
Si alzò, mise lo schioppo a tracolla e scese a valle guardingo fino a raggiungere il torrente nel fondovalle. Ci sarebbe voluta un’ora per arrivare in paese e percorse la riva osservando i flutti che levigavano le pietre del greto e fischiettando una marcetta.
Per Giacomino la tana era quella, non c’erano dubbi, ma sul sentiero verso casa capitava di incontrare dei compaesani con il fucile, anche loro certi di aver individuato il buco giusto, ciascuno risoluto a mantenere il segreto sul luogo del proprio appostamento.
Da Nord scendeva il Griso, che un inverno aveva visto orme enormi stampate nel fango; da sud veniva giù il Ruffo, che aveva raccolto dello strano pelo sulla soglia di una caverna; da est sgambettava verso valle il Pasti, che aveva udito un grugnito da far paura.
Morti sbranati di recente non ce n’erano stati, solo pecore e vacche, e forse erano stati i lupi, ma il Paci cento anni prima da una di quelle battute non era più tornato ed era fuori discussione che se lo fosse mangiato la bestia, e ancora se ne cercavano le ossa.
Quell’essere immondo nessuno l’aveva visto ma era immaginato di due metri d’altezza, con pelo di lupo e muso d’uomo. Il parroco don Gaetano lo dipingeva come un diavolo scappato dall’inferno per dannare la vita dei cristiani e, a furia di parlarne, a quel demonio era stata data una forma: il marmista l’aveva scolpito ed era terrificante. La statua era finita al centro della piazza sotto i piedi della Madonna aggiungendo per ultime le corna, che se lo diceva il prete che era un diavolo bisognava metterle.
A tenere viva la paura ci pensava il cantastorie che arrivava la sera di ogni sabato vestito del suo tabarro: appena iniziava a fare buio, e dietro i vetri delle case si vedevano i primi bagliori tremolanti delle candele, soffiava nella cornamusa e stornellava così:

Lungo il fiume scende la belva
assetato di sangue e con la bava
lascia la tana e abbandona la selva
per bere il sangue della gente brava

Terminata la nenia il menestrello ostentava un crocifisso ai quattro lati del mondo recitando un Pater Noster e poi bussava alle porte per chiedere un soldo o del pane per quel rito indispensabile a tenere il paese lontano dai guai.
Una sera all’osteria si presentò un uomo con in testa un cappellaccio mai visto da quelle parti, dicendo che la belva non c’era e che per il bene di tutti sarebbe stato meglio che quella storia finisse lì, che i bambini tornassero a giocare nel bosco e le donne a passeggiare lungo il torrente.
«Straniero, mica sarai amico della bestia?» gli disse il Griso guardandolo torvo mentre attorno si era fatto silenzio, tutti a guardare di sbieco quell’uomo che non aveva titoli per parlare in quel modo.
«E allora cercatelo bene questo animale, ignoranti!», disse lo straniero.
«E sentiamo, tu come faresti?» gli chiese il Ruffo avvicinandosi minaccioso.
«Fate venire degli scienziati, gente che se ne intende!»
«Foresti qui non ne vogliamo» ribatté il Pasti, pure lui in piedi davanti allo sconosciuto.
«Lo vedi che sei un ignorante?».
Quasi ne venne una zuffa e stavano per passare alle mani quando Giacomino ebbe un’idea: «Chiediamo al parroco, ci dirà lui cosa fare!».
Andarono a suonare alla porta della canonica. Don Gaetano scese in strada e vedendoli con i bastoni pronti a menare pensò che l’unica maniera per salvare quell’incosciente venuto da chissà dove fosse quella di dargli ragione: «Dovrebbe bastare Gesù Cristo, ma anche gli scienziati sono cristiani; facciamoli venire che male non farà» disse facendosi il segno della croce.
Quasi riappacificati erano tornati all’osteria a scommettere sull’esito della spedizione scientifica, che presto avrebbe raggiunto il paese, e a ridere dei dottori che di montagna e di belve non potevano sapere, non come loro che lì c’erano nati.
La settimana dopo arrivarono in due con gli occhiali, uno magro e uno grasso. Scesi dalla carrozza si guardarono intorno per cercare il facchino, perché avevano cinque valigie da portare alla locanda, ma non c’erano né facchini né locande in quel paesino sperduto tra le montagne. Ci pensò ancora il prete che li mise in canonica cedendo le sue stanze, prendendo per sé quella della perpetua che spedì a dormire dai parenti.
La domenica tutto il paese era alla messa delle 10 perché sarebbe stato annunciato cosa si voleva fare e si doveva capire in che mani ci si stava mettendo. Parlò prima il parroco, ribadendo dal pulpito che il diavolo si combatte con il Vangelo, che viene prima di tutto, spiegando che anche i due scienziati erano uomini di fede e che quindi si poteva procedere tranquilli nel tentare anche quella strada.
Due giorni dopo alle cinque di mattina un carro partì per la montagna in direzione delle tane. Seduti sul cassone con le gambe a penzoloni stavano i due scienziati; a governare il mulo che lo trainava si era messo lo straniero con il cappellaccio; davanti c’erano Giacomino e il Griso, e a fare da retroguardia il Ruffo e il Pasti, tutti e quattro a cavallo, impettiti sulla sella e con lo schioppo caricato a pallettoni.
Giunti dove il torrente si stringeva in una cascatella abbandonarono carro, mulo e cavalli e si arrampicarono sul versante nord fino alla prima tana, quella del Griso, che mostrò dove aveva trovato le orme, da tempo cancellate dalla pioggia e dal sole.
«È una tana di volpe» disse lo scienziato grasso osservando il buco che si trovava tra due massi di roccia calcarea.
«Troppo grande!» disse il Griso, che le tane delle volpi le conosceva bene: «La volpe non fa buche di questo tipo e qui ci passo anch’io!».
«Si vede che prima ci abitava un orso» replicò il professore raccogliendo con la paletta degli escrementi seminati nei paraggi. «Confermo: qui vive una volpe!» sentenziò sicuro mettendo in bisaccia alcuni ossi di animali spolpati.
Scesero a valle e salirono sul lato est, quello più scosceso, fino al buco dove stava in agguato il Ruffo, che spiegò dove aveva trovato la lana, mostrandola soddisfatto perché solo lui disponeva di quella prova inconfutabile.
«È pelo di camoscio» disse lo scienziato magro che a sostegno della sua tesi indicò alcuni rametti di conifere rosicchiati dall’erbivoro e la corteccia di una quercia abrasa dalle corna. «E la tana non è un tana ma una vecchia miniera abbandonata». Si addentrarono per alcuni metri nel tunnel scavato nella montagna senza trovare nulla che potesse fornire una prova che quella era la casa della bestia.
Il pomeriggio si arrampicarono sugli altri due versanti: a est era solo un varco derivato da una frana, e il grugnito che aveva sentito il Pasti chissà di quale animale era; quella che trovarono a ovest, dall’analisi dei due esperti era una fenditura allargata dalla dinamite: «Almeno da cento anni» disse lo scienziato magro recuperando della polvere con un pennellino.
«Per uccidere la bestia!» disse Giacomino ricordando le parole del nonno che gli aveva raccontato di quello scoppio per seppellire sotto i sassi l’immonda creatura.
Dopo aver raccolto campioni di terriccio, di pietra e di piante la spedizione scese a valle cercando impronte che però erano sempre di volpe, orso o camoscio.
Nei giorni a seguire misero trappole, tesero spaghi ad altezza d’uomo davanti ai varchi e tornarono più volte per un mese a controllare ma sempre si trovavano solo tracce di animali comuni per quei luoghi, non certo della belva che a questo punto o aveva cambiato casa o non c’era mai stata.
In paese la gente mormorava che Giacomino, il Griso, il Ruffo e il Pasti per una vita erano andati a caccia di un fantasma ma bisognava fosse l’autorità a dirlo, che altrimenti non si poteva raccontarla a quel modo e stare tranquilli.
Finito il loro lavoro gli scienziati pretesero di esporre l’esito delle ricerche con tutti i crismi dell’ufficialità: in chiesa e dal pulpito, così come era stato fatto quando erano arrivati. Ma il parroco tentennava, non sapeva cosa dire o fare perché si doveva salvare la reputazione dei quattro cacciatori e dunque bisognava inventarsi qualcosa.
Preoccupato per la questua che non era più quella di una volta il cantastorie bussò alla canonica chiedendo a don Gaetano di mettere le cose a posto, dicendogli che se la belva non c’era anche la parrocchia ne avrebbe risentito con elemosine più misere e una chiesa meno piena.
«Fai così» gli disse il prete «Cosa canti di là delle montagne?»
La c’è il paese dei cercatori d’oro, anche se non hanno mai trovato niente, e canto così:

Lungo il fiume scende l’oro
giallo e lucente si vede tra i flutti
lascia la casa e abbandona l’orto
vieni al fiume che ce n’è per tutti

«Inverti le strofe» gli disse il parroco «qui in paese la filastrocca sull’oro, di là delle montagne la nenia sulla bestia, al resto penso io».
«Ma siamo sicuri? Quale diavoleria ha in mente reverendo? Non vorrei perdere il lavoro!».
«Fai quello che ti dico e vedrai che ne avrai guadagno».
Il giorno dopo don Gaetano convocò i due scienziati facendo presenti le sue perplessità.
«Esimi professori, mi compiaccio dei vostri brillanti risultati che ci hanno liberati dalla paura della bestia ma qui siamo tra gente semplice e se diciamo che quel diavolo non c’è il paese si spacca e si perde la concordia: anche a questo deve pensare un povero curatore di anime».
«Ma noi siamo uomini di scienza! Mica possiamo raccontare balle!» esclamò il magro.
«Nessuna balla ma solo la pura verità» ribadì il prete.
«Dove ci vuole portare?» chiese il grasso.
«La bestia non c’è, e questa è scienza, ma si può dire che non ci sia mai stata?» disse don Gaetano.
I due professori si guardarono negli occhi, stupiti da quel ragionamento, e dopo un breve consulto concordarono che, secondo le leggi scientifiche, non si può affermare che qualcosa che non c’è nel presente non ci sia mai stata neppure nel passato.
In chiesa durante la relazione scientifica si fece secondo gli accordi: Giacomino, il Griso, il Ruffo e il Pasti non solo furono risparmiati dal pubblico ludibrio ma vennero addirittura acclamati come eroi perché era merito loro se la bestia infastidita dai loro appostamenti se n’era andata verso luoghi più tranquilli.
Così era infatti sicuramente avvenuto, come aveva iniziato a recitare il cantastorie di là delle montagne, preoccupando non poco quei valligiani pronti con lo schioppo a difendere le loro case.
Dalla parte di qua si era invece sparsa la voce che nel torrente c’era l’oro.
La spaventosa statua ai piedi della Vergine fu distrutta a colpi di mazza e cominciarono le novene per ingraziarsi i santi, che davanti a tanta devozione non avrebbero potuto tirarsi indietro. Lavorando di preghiera, di piccone e di setaccio sarebbero presto diventati ricchi.

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